Sapendo quanto sia raro incontrare fra intenzioni e
risoluzioni una concordanza che non sia puramente
teorica, e magari velleitaria, questo pittore, che si direbbe
perseguire una via alquanto inusitata rispetto ai
modelli correnti, appare assai consapevole degli aspetti
più espliciti del suo lavoro. Materia povera, figurazione
istintiva, innocenza, semplicità: i termini più frequenti
sono questi. E per quanto non sia chiaro se il tono con il
quale Testagrossa si confessi, sia di modestia e di segreta fermezza, certamente corrisponde a quanto le opere,
a una prima osservazione, sono pronte a testimoniare.
Fissate in una tonalità unica di terre chiare, o ambrate,
o bruciate; immerse in un colore consunto, da affresco
che tende ad allontanare ogni effetto in una luce che
pur intuendosi mediterranea si manifesta sempre come
crepuscolare, assorta, come se il momento privilegiato
fosse quello del transito verso la notte – e nulla vieta
di intendere quel silenzio sopravvivente come una
metafora più o meno consapevole; più che staccarsi da
questo magro impasto di materia, già di per sé allusiva
a un certo primitivismo di visione, le figure vi si immobilizzano,
quasi non fossero altro che impronte sul
punto di scomparire.
Dalla tela e dalla memoria...Malgrado la struttura delle
forme lasci intendere una sorta di monumentalità
arcaica, con accenni al menhir, alla colonna, alla pietra
sacrificale, e malgrado i soggetti (gli oggetti), figure
umane e animali, siano rilevati da ombreggiature, ciò
che caratterizza questa pittura non è, come invece sembrerebbe,
più un’insistenza plastica apparentemente
più consona ad un’evoluzione di tipo mistico pastoriale,
ma piuttosto il segno, la graffiatura, l’incisione, con
un immediato rimando dall’affresco all’arte rupestre.
Da cui, ancora una volta, la diffusa sensazione di un intenso
desiderio di recupero: del tempo, o forse, meglio,
di un modo di essere nel tempo, secondo gesti solenni,
silenziosi. E tuttavia non per questo sereni. Questo “ritorno”, per il quale il pittore si avvale (facendoli suoi) di modi stilistici di lontana provenienza e che comunque non mi stupirei si fossero stati filtrati da artisti che a loro volta li fecero propri, e per il clima austero e,
sacrale magico, si potrebbero avanzare con cautela i
nomi, fra loro, non poi così contraddittori, di Marino
Marini, o del Licini delle Amalasunte. Questo “ritorno”
non è privo di perplessità. E non a caso le figure assumono
in genere atteggiamenti d’attesa e di stupore, e
ci appaiono infatti, in qualche luogo, quasi riassorbite
nella materia, o frammentarie, così come a tratti e
non meno significativamente se questo “ritorno” lo intendiamo
un momendo emblemativo del “continuum”
del ciclo naturale, ci appaiono sovrapposte, incrociate,
fatte fra loro simili per incessanti metamorfosi, restituite
all’energia che le genera, e che il pittore si sforza di
trattenere. Così che quanto resta da contemplare non
è tanto la traccia incerta di un tempo irrecuperabile,
quanto la riaffermazione di una presenza.